di Stefano Racheli da Toghe.blogspot
(Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Roma)
Provo a ricondurre il discorso nel suo alveo naturale e principale. Lo farò iniziando a citare me stesso (cosa in sé antipatica), non per motivi di merito, ma per far rimarcare un dato meramente cronologico.
Scrivevo nel dicembre del 1977: «Quale occasione migliore – in un paese travagliato da una profonda crisi economica il cui peso ricade per intero sulle classi più deboli – per screditare chi ha nella pubblica opinione la sua unica arma di difesa? Cosa può avvilire di più il prestigio della magistratura dell’insinuare che essa sia composta di ingordi e fannulloni? E che ci sarebbe di più facile dell’eliminare nella sostanza un istituzione (la magistratura) ormai ritenuta dal popolo inutile, parassitario e comunque inefficace?».
E ancora, nel maggio 1980 (polemizzando con il prof. Mancini che, sulle pagine de La Repubblica del 12.3.1980, spezzava numerose lance a favore della dipendenza del PM da parte del potere politico), affermavo: «Con ciò non su vuol certo negare che possono esistere magistrati “politicizzati” o “corrotti”. Compito della classe politica è di aiutare la magistratura a individuarli e perseguirli sì che tutti i giudici siano come l’immagino nei miei sogni: imparziali e indipendenti. Il che non solo sarebbe piaciuto a Montesquieu e a Calamandrei, ma, credo, alla stragrande maggioranza degli italiani che ne hanno le tasche piene della summa divisio tra punibili e intoccabili».
Mi sono permesso di autocitarmi solo per far risaltare cosa bolliva in pentola trent’anni or sono.
Era già allora chiaro che: a) era in corso una campagna denigratoria capace di “lavorare ai fianchi” la magistratura; b) detta campagna era finalizzata al controllo politico dell’azione penale; c) detto controllo era destinato a far sì che potesse sopravvivere e affermarsi la “summa divisio tra punibili e intoccabili”.
La magistratura ha avuto trent’anni di tempo – dicesi trenta anni ! – per elaborare e praticare l’unica strategia possibile: quella della pulizia e dell’autorevolezza.
Non averlo fatto costituisce, per chi avrebbe dovuto condurre siffatta strategia (l’A.N.M., tanto per essere chiari), una colpa storica i cui effetti ricadranno sui cittadini molto più che non sui magistrati.
Certo è che è ben singolare (vedi dichiarazioni di ieri in tv del senatore Gasparri) la tesi di chi vuole, per eliminare la “politicizzazione” della magistratura ( e cioè di chi “giudica”), mettere tutti i “giudizi” sotto il controllo della politica: vorrebbe dire che per eliminare un male occasionale e eccezionale, si istituzionalizza il male stesso.
Si dimentica, per esprimersi in termini “teorici”, che la democrazia, quale che ne sia la nozione accettata, comporta sempre il controllo sul potere.
Le lotte per la libertà sono sempre state lotte per trasformare il potere (assoluto, illuminato o dittatoriale che fosse) in potere controllato.
Una democrazia senza “controlli” è un soldato senza fucile.
Se il potere deve essere controllato, chi detiene il potere non può partecipare al controllo.
Non si tratta di opportunità politica, ma di logica della democrazia: o si comanda o si controlla.
Non è certo questa la sede per impelagarsi in discettazioni filosofiche circa la distinzione tra “opposizione reale” e “opposizione dialettica”.
Fatto è che esistono realtà (il potere e il controllo) che non possono con giochini dialettici essere ridotte a unità.
Il potere, in quanto potere democratico, è tale – e non arbitrio – perché c’è il controllo.
Il controllo è tale finché non diviene esercizio di potere politico.
Un gatto che abbaia è molto più di un cattivo gatto: è una contraddizione in termini, è un non-gatto.
Un giudice che sia dipendente dal potere politico (ovvero che si arroghi di essere un potere politico “alternativo”) è ben più di un cattivo giudice: è un non-giudice perché accentra in un unico soggetto potere e controllo.
Sarebbe ora che si imparasse a conoscere dai frutti coloro che vogliono, da anni, togliere alla Nazione fiducia nei giudici per privarla poi dei giudici stessi.
A dispetto delle sue vesti progressiste, ogni tentativo di diminuire il controllo (giudiziario, dell’opposizione, della stampa, etc) sul potere è reazionario al massimo grado, poiché costituisce una netta involuzione nel progresso della convivenza civile.
E il fatto che la magistratura associata – per miopia, per corporativismo e per quant’altro – abbia facilitato colpevolmente l’erosione dello Stato democratico, non per questo rende meno eversiva l’azione in atto.
Oggi sono a rischio tutti i meccanismi di contrappeso/controllo del potere politico: il controllo di legalità devoluto alla magistratura ordinaria, il ruolo svolto dall’opposizione parlamentare, la pluralità/libertà delle testate giornalistiche e/o audio-televisive, il ruolo (fondamentale) esercitato dalla Corte costituzionale, etc etc
Bisogna dire chiaro e forte che un conto è accogliere le istanze di forte rinnovamento della giustizia, altro conto è abbandonarsi a manovre eversive dell’assetto democratico costituzionale.
Ribadisco: assetto democratico e costituzionale, essendo del tutto ovvio che la costituzione non è un totem e, ricorrendone la necessità, può certo essere cambiata.
Ma sempre tenendo d’occhio alle esigenze di democrazia, dato che istanze antidemocratiche ben possono permeare una legge definibile come costituzione.
Un conto è, in ipotesi, dire che la bandiera nazionale è da oggi a tre bande orizzontali di colore arancione, verde e bleu; altro conto è dire che da domani, il parlamento è eletto solo dai cittadini aventi un reddito superiore ai 200.000 euro annui.
Mi si vorrà mica far credere che, nel secondo caso, la legge sarebbe democratica sol perché avete la forma di costituzione?
Se dunque il caso Salerno/Catanzaro è stato scandaloso per la democrazia, si deve tener presente che altrettanto (e forse di più) scandaloso sarebbe consentire – per uscire dal “teorico” ed entrare in una dimensione realissimissima, ancorché non recente – che “casi” come quelli che agitarono il passato sotto il nome di IRI, Italcasse, Caltagirone, ENI, etc, vengano a essere gestiti giudiziariamente dalle forze politiche chiamate in causa da quei casi.
Occorre, ancora una volta, guardarsi da chi la sta “buttando in caciara”.
Il problema infatti non è tanto di scegliere se debba governare la “destra” o la “sinistra” (la cosa è dal punto di vista del “sistema” del tutto secondaria): il punto è se il sistema che si profila abbia in sé i requisiti necessari perché il potere non vada fuori controllo.
Né si può dimenticare che si vive in tempi di gravi sconvolgimenti sociali e con sacche di povertà emergenti.
Occorre dunque ricordare l’insegnamento di Erich Fromm (cfr “Fuga dalla Libertà”), secondo cui l’uomo moderno, pur ricco di potere tecnico, è, come singolo individuo, assai più fragile dell’uomo antico.
L’uomo moderno (e, ancor di più, a mio parere, l’uomo “globalizzato”) fugge dalla libertà perché, sentendosi piccino e ininfluente, tende “a rinunziare all’indipendenza del proprio essere individuale, e a fondersi con qualcuno o qualcosa al di fuori di se stesso per acquistare la forza che manca al proprio essere”.
Dunque i rischi che oggi corre il “sistema democratico” sono non poco ampliati dalla stato psicologico che pervade i cittadini troppo spesso deprivati di ogni capacità di reazione.
Quali i rischi? Tanti e gravi.
Quali i rimedi? Pochi e sicuri.
Non tenterò di descriverli con parole mie, temendo di dire troppo o troppo poco, il che, in siffatto genere di argomenti, è cosa da evitare.
Userò dunque parole di altri, le quali, per il fatto di venire da tempi lontani, non possono certo essere sospettate di pregiudizievoli simpatie o antipatie verso personaggi che calcano oggi la scena politica.
«Vi sono alcuni che hanno osato affermare che (...) non si deve temere di dare tutto il potere alla maggioranza. Ma questo è un linguaggio da schiavi.
Cos’è infatti una maggioranza presa collettivamente se non un individuo che ha opinioni e più spesso interessi contrari a quelli di un altro individuo che si chiama minoranza?
Ora se ammettete che un uomo, investito di un potere assoluto, può abusarne contro i suoi avversari, perché non ammettere la stessa cosa per una maggioranza?
Gli uomini, riunendosi, hanno forse cambiato carattere? (…) Per parte mia, non posso crederlo; e un potere onnipotente, che io rifiuto a uno solo dei miei simili, non l’accorderei mai a parecchi.
(…) Ritengo che sia più facile stabilire un governo assoluto e dispotico in mezzo a un popolo che ha raggiunto l’uguaglianza che in mezzo ad un altro e penso che, se mai un simile governo si stabilisse in un popolo del genere, non solo opprimerebbe gli uomini, ma alla lunga porterebbe loro via parecchi dei principali attributi dell’umanità (…).
E’ insieme necessario e auspicabile che il potere centrale che governa un popolo democratico sia attivo e potente. Non si tratta affatto di renderlo debole o indolente, ma soltanto di impedirgli di abusare della sua attività e della sua forza.
(…) In tempi di eguaglianza l’individuo è naturalmente isolato; non ha amici ereditari dai quali possa pretendere soccorso, né una classe sulle cui simpatie possa con sicurezza contare; lo si può impunemente separare dagli altri e impunemente calpestare. Oggi un cittadino oppresso non ha dunque che un solo modo di difendersi: rivolgersi alla nazione intera; e, se questa è sorda, al genere umano; ha un solo mezzo per farlo, la stampa. Così la libertà di stampa è infinitamente più preziosa nelle nazioni democratiche che non nelle altre.
(…) Dirò qualcosa di analogo del potere giudiziario (…): i diritti e gli interessi dei privati saranno sempre in pericolo se il potere giudiziario non cresce e non si estende nella stessa proporzione in cui le condizioni si livellano.
(…) Perciò, proprio in queste epoche democratiche in cui viviamo, i veri amici della libertà e della dignità umana debbono cercare continuamente di stare all’erta».
Così andava scrivendo nella prima metà del XIX secolo il genio profetico di Alexis de Tocqueville.
Meditate, gente, meditate …