CASTELVOLTURNO - Teddy è andato via perché adesso sa cosa significa essere una boccetta. «Vogliono la tua sottomissione, gli interessa solo questo. Abbiamo provato a renderci utili. Ma a loro non interessa. Siamo schiavi, e tali dobbiamo rimanere». In un'intercettazione di 12 anni fa, uno dei tanti macellai dei Casalesi saluta il suo compare. Lo saluta dicendo che in serata magari se ne va a Castelvolturno «per giocare a boccette con i negri». Poche ore dopo, da una macchina in corsa parte una raffica di mitra contro tre extracomunitari che aspettavano l'autobus sulla Domiziana. «Siamo i loro giocattoli, ma fanno così perché sanno che agli altri italiani in fondo non dispiace ».
Il 19 agosto di quest'anno il nigeriano Teddy Egonwman e sua moglie Alice sono diventati birilli a casa loro. All'ora di cena un gruppo di quattro uomini si mise a sparare sulle finestre del container dove vivevano, ne sfondò la porta e continuò a fare fuoco anche dentro. Un'ottantina di colpi. Due giorni dopo, Teddy e la sua famiglia erano su una macchina diretta a Torino. Così finiscono le illusioni, da queste parti. I coniugi Egonwman si erano messi in testa di fare qualcosa. In modo confuso, arruffato, pasticcione. Ma ci avevano provato. Erano arrivati in Italia da clandestini, come tutti. Teddy trovò lavoro e permesso di soggiorno in un'azienda edile, Alice si buttò nell'import- export di oggetti africani. Lui fondò un'associazione per raccogliere tutti gli immigrati provenienti da Benin City. L'anno scorso aveva deciso di redimere le sue connazionali che lavorano in strada. Faceva addirittura le ronde, non risparmiava qualche schiaffone, alle ragazze a ai loro galoppini. «Non avevano capito che nulla deve e può cambiare. I "miei" e i "tuoi" non vogliono seccature».
A Castelvolturno Teddy era un personaggio così isolato da risultare addirittura patetico nei suoi sforzi. La spedizione punitiva fu bipartisan, nigeriani e casalesi d'accordo nel dare una lezione a un pesce piccolo che veniva considerato un traditore del suo popolo e metteva in crisi il patto tra mafiosi africani e Casalesi. «Volevo dare il mio contributo per liberare la Domiziana dalla prostituzione. Mi hanno urlato che ero un venduto alla Polizia. Mi hanno sparato. Nessun italiano mi ha dato solidarietà, perché un negro che cerca di darsi da fare deve avere per forza qualcosa di storto, no? Tanti saluti, allora». Quelli che restano però rischiano davvero di diventare boccette a disposizione di giocatori anfetaminici e fuori controllo, schiacciati da due poteri simili e alleati nel tenere oppressi i pochi che si muovono sulla linea di confine. «Le uniche vere comunità che ancora esistono sul territorio sono quelle criminali», ragiona un investigatore e le sue parole sono simili a quelle di padre Giorgio Poletto, il prete comboniano che da anni cerca di togliere le ragazze nigeriane dalla strada. «Non è mai stato così difficile. Abbiamo davanti un mare di persone anonime, con rappresentanti che sanno di non rappresentare nulla. La frammentazione li rende più deboli. Sono soltanto individui, alla mercé di un sistema criminale perfetto nella gestione del territorio. In una parola: schiavi».
La strage di Varcaturo rappresenta il disprezzo per i più deboli, quelli che si trovano in mezzo. Il simbolo di questa violenza «terrorista e razzista», come la definisce il magistrato Franco Roberti. La Spoon river delle vittime racconta di gente molto diversa dal prototipo dello spacciatore. Francis era felice perché due settimane fa aveva avuto il riconoscimento dello status di rifugiato politico, dopo sei anni in Italia. Faceva il muratore e frequentava le associazioni di Caserta che si battono per i diritti degli immigrati. Elaj il sarto partecipava alle assemblee settimanali sui diritti degli immigrati, anche lui frequentava i centri sociali impegnati. Akej il barbiere è morto con 700 euro nei calzini. Stava andando a spedirli alla famiglia da quella sorta di Western Union non autorizzata che sorge accanto al locale della strage. Lavorava a Napoli, in un locale del centro. Nei locali devastati dai proiettili e nelle loro case delle sei vittime non è stata trovata droga. Puliti.
M. Imarisio
domenica 21 settembre 2008
venerdì 19 settembre 2008
TSO?
Dalla Cronaca..
A vederlo sembrava un turco, e tanto è bastato a scatenare l'aggressione da parte di un gruppo di estrema destra di un uomo che camminava per strada a Roderkirchen, un quartiere di Colonia. L'uomo si è messo in salvo raggiungendo la polizia, che presidia la città nel giorno in cui si apre il congresso "anti-islam". Un appuntamento all'intolleranza, contro la costruzione della moschea a Colonia e contro l'islamizzazione, a cui sono attesi tutti i maggiori gruppi xenofobi d'Europa. Particolare impressione ha destato la notizia della partecipazione - nella delegazione italiana - dell'eurodeputato leghista Mario Borghezio.
Mentre il presidente del Senato invita al rispetto della memoria, un altro componente della maggioranza partecipa a manifestazioni che propugnano ideali favorevoli alla commissione di barbari crimini contro l' umanità.
Non so..non ho parole, solo tanta tristezza.
A vederlo sembrava un turco, e tanto è bastato a scatenare l'aggressione da parte di un gruppo di estrema destra di un uomo che camminava per strada a Roderkirchen, un quartiere di Colonia. L'uomo si è messo in salvo raggiungendo la polizia, che presidia la città nel giorno in cui si apre il congresso "anti-islam". Un appuntamento all'intolleranza, contro la costruzione della moschea a Colonia e contro l'islamizzazione, a cui sono attesi tutti i maggiori gruppi xenofobi d'Europa. Particolare impressione ha destato la notizia della partecipazione - nella delegazione italiana - dell'eurodeputato leghista Mario Borghezio.
Mentre il presidente del Senato invita al rispetto della memoria, un altro componente della maggioranza partecipa a manifestazioni che propugnano ideali favorevoli alla commissione di barbari crimini contro l' umanità.
Non so..non ho parole, solo tanta tristezza.
mercoledì 17 settembre 2008
Italiani?Siete tutti deficienti!
« Le liste bloccate [diversamente dal meccanismo che consente al cittadino di esprimer la propria preferenza] sono l' unico strumento in grado di selezionare autorevoli esponenti politici».
By Silvio Berlusconi
sabato 13 settembre 2008
Casta canta
By Marco Travaglio
Ha ragione Simone Collini quando, sull'Unità, paragona il battage anti-Casta di un anno fa al silenzio di oggi. Ma Stella& Rizzo, o Beppe Grillo, non c’entrano: denunciavano allora, denunciano oggi. Gli esami calabresi della Gelmini, i bagni giannutresi di Fini, le marchette degli scalatori Alitalia e il ripristino berlusconiano degli aerei di Stato à gogò: nulla è cambiato, anzi molto è peggiorato. Ma il padrone della tv, con i Johnny Raiotta, i Mazza, i Fede, i Mimun al seguito, se le canta e se le suona. E chi non ha risolto il suo conflitto d’interessi, anziché piagnucolare, dovrebbe fare mea culpa. Anche perché finora, della Casta, si è sottolineato l’aspetto più superficiale, cioè i superstipendi, gli sprechi e gli status symbol. E non, invece, il tratto più profondo: la convinzione dei mandarini di appartenere a un club esclusivo, di essere diversi dagli altri, di non essere sottoposti alle leggi e alle regole. Che, com’è noto, valgono solo per gli altri.
Le parole di Ottaviano Del Turco, intervistato da Repubblica, illustrano bene il fenomeno. La legge vigente affida al gip il compito di arrestare gli indagati che minaccino di ripetere il reato, e poi di interrogarli nell’”incidente probatorio” (che ha valore di prova al dibattimento). Ma ciò che vale per tutti i comuni mortali è, per Del Turco, inaccettabile. Infatti ha ricusato il gip, accusandolo di essere “prevenuto” contro di lui. La prova? Il gip ha espresso “giudizi di colpevolezza” nell’ordine di custodia. Oh bella: se il gip fosse convinto della sua innocenza, non l’avrebbe arrestato. Se l’ha arrestato è perché - come prevede la legge - ha ritenuto fondati i “gravi indizi di colpevolezza” addotti dai pm. Ogni giorno i gip esprimono giudizi di colpevolezza su migliaia di arrestati e poi li interrogano. Ma Del Turco è speciale: pretende un gip nuovo di pacca, magari convinto della sua innocenza. Perché? “Il gip De Maria ha sostenuto che il sottoscritto, dopo essersi dimesso da tutto, sarebbe ancora in grado di reiterare il reato e dunque deve continuare a esser privato della libertà” con gli arresti domiciliari. Ma dove sta scritto che le dimissioni dalla carica cancellano il pericolo di nuovi reati? Quella ipotizzata dai magistrati è una ragnatela di corruzione che durava da anni, addirittura dalla vecchia giunta di centrodestra, che poi avrebbe passato il testimone delle mazzette a quella di centrosinistra. Un presunto clan con decine di indagati. Solo confessando l’indagato rompe i rapporti con gli altri, si rende inaffidabile nei loro confronti e dunque si può pensare che non delinquerà più. Altrimenti il rischio permane.
Nel processo “carceri d’oro”, a fine anni 80, si scoprì che i funzionari del Provveditorato delle opere pubbliche di Milano intascavano le mazzette a rate: a mano a mano che i costruttori incassavano i pagamenti dallo Stato, versavano l’obolo a chi aveva procurato loro gli appalti. E siccome i pagamenti andavano a rilento, alcuni continuarono a prendere tangenti anche quando erano in pensione e non contavano più nulla. Ma nessuno si sognò di interrompere i versamenti, altrimenti sarebbe divenuto inaffidabile coi funzionari in servizio. Del Turco ammette poi, con la massima naturalezza, di aver chiesto udienza al Comando generale della Guardia di Finanza quando partirono le indagini sulla sua giunta: “Certo che volevo lamentarmi”, perché gli inquirenti indagavano anche su “denunce anonime”, mentre “io gli anonimi li ho sempre cestinati”. Ma se un investigatore riceve un anonimo che fa i nomi di qualche assassino o di qualche tangentaro, perché non dovrebbe verificare se dice il vero o no? E quale cittadino comune potrebbe andare al Comando generale della Gdf per lamentarsi delle indagini a suo carico? Giusto Del Turco, che un comune cittadino non era, anche perché era stato ministro delle Finanze.
L’ultima “prova” della prevenzione del gip citata da Del Turco è spettacolare: “Avevo chiesto di trascorrere due settimane in Sardegna con mia moglie. Mi è stato detto che era possibile, a patto che fossi sorvegliato giorno e notte”. Ora, immaginiamo che sarebbe accaduto se un gip avesse concesso i domiciliari in Costa Smeralda a un normale detenuto accusato di aver rubato 6 milioni, con l’unica restrizione di qualche agente alle calcagna. Avremmo i giornali e i politici che strillano per il lassismo delle toghe rosse, che consentono la bella vita ai ladri. Se invece la stessa cosa accade per un mandarino della casta, accusato di aver rubato 6 milioni alla sanità pubblica, allora i giudici sono prevenuti. Da ricusare
Ha ragione Simone Collini quando, sull'Unità, paragona il battage anti-Casta di un anno fa al silenzio di oggi. Ma Stella& Rizzo, o Beppe Grillo, non c’entrano: denunciavano allora, denunciano oggi. Gli esami calabresi della Gelmini, i bagni giannutresi di Fini, le marchette degli scalatori Alitalia e il ripristino berlusconiano degli aerei di Stato à gogò: nulla è cambiato, anzi molto è peggiorato. Ma il padrone della tv, con i Johnny Raiotta, i Mazza, i Fede, i Mimun al seguito, se le canta e se le suona. E chi non ha risolto il suo conflitto d’interessi, anziché piagnucolare, dovrebbe fare mea culpa. Anche perché finora, della Casta, si è sottolineato l’aspetto più superficiale, cioè i superstipendi, gli sprechi e gli status symbol. E non, invece, il tratto più profondo: la convinzione dei mandarini di appartenere a un club esclusivo, di essere diversi dagli altri, di non essere sottoposti alle leggi e alle regole. Che, com’è noto, valgono solo per gli altri.
Le parole di Ottaviano Del Turco, intervistato da Repubblica, illustrano bene il fenomeno. La legge vigente affida al gip il compito di arrestare gli indagati che minaccino di ripetere il reato, e poi di interrogarli nell’”incidente probatorio” (che ha valore di prova al dibattimento). Ma ciò che vale per tutti i comuni mortali è, per Del Turco, inaccettabile. Infatti ha ricusato il gip, accusandolo di essere “prevenuto” contro di lui. La prova? Il gip ha espresso “giudizi di colpevolezza” nell’ordine di custodia. Oh bella: se il gip fosse convinto della sua innocenza, non l’avrebbe arrestato. Se l’ha arrestato è perché - come prevede la legge - ha ritenuto fondati i “gravi indizi di colpevolezza” addotti dai pm. Ogni giorno i gip esprimono giudizi di colpevolezza su migliaia di arrestati e poi li interrogano. Ma Del Turco è speciale: pretende un gip nuovo di pacca, magari convinto della sua innocenza. Perché? “Il gip De Maria ha sostenuto che il sottoscritto, dopo essersi dimesso da tutto, sarebbe ancora in grado di reiterare il reato e dunque deve continuare a esser privato della libertà” con gli arresti domiciliari. Ma dove sta scritto che le dimissioni dalla carica cancellano il pericolo di nuovi reati? Quella ipotizzata dai magistrati è una ragnatela di corruzione che durava da anni, addirittura dalla vecchia giunta di centrodestra, che poi avrebbe passato il testimone delle mazzette a quella di centrosinistra. Un presunto clan con decine di indagati. Solo confessando l’indagato rompe i rapporti con gli altri, si rende inaffidabile nei loro confronti e dunque si può pensare che non delinquerà più. Altrimenti il rischio permane.
Nel processo “carceri d’oro”, a fine anni 80, si scoprì che i funzionari del Provveditorato delle opere pubbliche di Milano intascavano le mazzette a rate: a mano a mano che i costruttori incassavano i pagamenti dallo Stato, versavano l’obolo a chi aveva procurato loro gli appalti. E siccome i pagamenti andavano a rilento, alcuni continuarono a prendere tangenti anche quando erano in pensione e non contavano più nulla. Ma nessuno si sognò di interrompere i versamenti, altrimenti sarebbe divenuto inaffidabile coi funzionari in servizio. Del Turco ammette poi, con la massima naturalezza, di aver chiesto udienza al Comando generale della Guardia di Finanza quando partirono le indagini sulla sua giunta: “Certo che volevo lamentarmi”, perché gli inquirenti indagavano anche su “denunce anonime”, mentre “io gli anonimi li ho sempre cestinati”. Ma se un investigatore riceve un anonimo che fa i nomi di qualche assassino o di qualche tangentaro, perché non dovrebbe verificare se dice il vero o no? E quale cittadino comune potrebbe andare al Comando generale della Gdf per lamentarsi delle indagini a suo carico? Giusto Del Turco, che un comune cittadino non era, anche perché era stato ministro delle Finanze.
L’ultima “prova” della prevenzione del gip citata da Del Turco è spettacolare: “Avevo chiesto di trascorrere due settimane in Sardegna con mia moglie. Mi è stato detto che era possibile, a patto che fossi sorvegliato giorno e notte”. Ora, immaginiamo che sarebbe accaduto se un gip avesse concesso i domiciliari in Costa Smeralda a un normale detenuto accusato di aver rubato 6 milioni, con l’unica restrizione di qualche agente alle calcagna. Avremmo i giornali e i politici che strillano per il lassismo delle toghe rosse, che consentono la bella vita ai ladri. Se invece la stessa cosa accade per un mandarino della casta, accusato di aver rubato 6 milioni alla sanità pubblica, allora i giudici sono prevenuti. Da ricusare
mercoledì 10 settembre 2008
Mitragliatrice?Non più!
Non c'è più bisogno di questo per uccidere la magistratura
È L'UOVO di Colombo. Che cos'è un pubblico ministero senza polizia giudiziaria? Più o meno, niente. Un corpo senza braccia. Una toga nera che cammina. E allora se, nella scelta e nell'avvio dell'esercizio dell'azione penale, si toglie all'accusa la collaborazione della polizia; se si attribuiscono alla polizia i poteri che oggi sono del pubblico ministero (dalle notizie di reato alla direzione delle indagini), il gioco è fatto.
Quel che oggi appare una faticosa (e ardua) ascesa alle vette di una riforma costituzionale diventa, più o meno, una quieta passeggiata in riva al mare. Un percorso legislativo ordinario e svelto che, senza troppo clamore e piazze Navona, altera gli equilibri costituzionali più di quanto possa fare una risicatissima riscrittura della Costituzione.
La "riforma della giustizia" (o meglio lo scontro ideologico tra politica e magistratura) ha già un suo compromesso concreto, rapidamente realizzabile e già per buona parte condiviso. L'abolizione di qualche parola in due articoli del codice di procedura penale consente alla politica di ottenere, senza "guerre di religione", quel che dai tempi della Bicamerale è apparso alla politica una chimera: il controllo dell'azione penale e l'attenuazione dei poteri del pubblico ministero a vantaggio dell'esecutivo.
Come si sa, la riforma ha un'agenda autunnale già annunciata dal ministro della Giustizia Alfano: riforma del processo penale e civile e, poi, interventi costituzionali che muteranno il ruolo del Csm, l'obbligatorietà dell'azione penale, la separazione delle carriere. E' un'agenda, per la prima parte (riforma del processo), condivisa anche dall'opposizione che vuole rendere concreta la ragionevole durata del processo e più efficiente (finalmente efficiente) la macchina della giustizia. Ma, a saper ascoltare Luciano Violante e Niccolò Ghedini - le vere "teste d'uovo" protagoniste di questo minimalismo al tempo stesso riformista e rivoluzionario - è sufficiente già il riordino del processo penale per raccogliere qualche desideratissimo risultato. L'accordo non è segreto. Il compromesso è lì alla luce del sole e basta soltanto unire i punti per vederne il disegno.
Chiedono a Violante della separazione delle carriere (2 settembre, il Giornale). Curiosamente, prima di dirsi contrario alla separazione, Violante ragiona a lungo (in apparenza c'entra come il cavolo a merenda) sulla "confusione tra attività di polizia e attività del pm". Per concludere: "Il ruolo della polizia è stato schiacciato dal ruolo del pm. Bisogna tornare ai principi della Costituzione: la polizia da una parte e il pm dall'altra, ciascuno con proprie attribuzioni". E' una stravaganza il richiamo alla Carta. Come se le "attribuzioni" delle polizie fossero prescritte dalla Costituzione che, al contrario, all'articolo 109 recita: "L'autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria".
A stretto giro (3 settembre, il Giornale), risponde a Violante Niccolò Ghedini. Tecnico sapientissimo, di fatto il Guardasigilli, scorge il varco. Dice: "Sono d'accordo sulla necessità di valorizzare il lavoro della polizia giudiziaria rendendolo più autonomo da quello del pm. L'accordo si può trovare in tempi brevi". Si può immaginare che l'avvocato e consigliere di Berlusconi sfoggi uno dei suoi sorrisi, quando si lancia nella difesa dell'obbligarietà dell'azione penale ("La manterrei"). Ghedini sa che, liberata la polizia giudiziaria dalla dipendenza al pm, non vale più la pena occuparsi dell'obbligatorietà dell'azione penale che sarebbe già fritta. Vediamo perché.
Oggi (art. 327 del codice di procedura penale) "il pubblico ministero dirige le indagini e dispone direttamente della polizia giudiziaria che, anche dopo la comunicazione della notizia di reato, continua a svolgere attività di propria iniziativa". Se si cancellano le parole in corsivo la norma diventa: "La polizia giudiziaria, anche dopo la comunicazione della notizia di reato, svolge attività di propria iniziativa". Il pubblico ministero perde la direzione delle indagini mentre la polizia guadagna la sua libertà. Come chiunque comprende, la variazione non è neutra e senza conseguenze. Il pubblico ministero è indipendente dal potere politico e "soggetto soltanto alla legge", mentre il poliziotto è un funzionario dello Stato che risponde agli ordini di un ministro e alle scelte politiche del governo. Una seconda "correzione" accentua la discrezionalità della polizia e la distanza dal pm.
Articolo 347 del codice di procedura di penale: "Acquisita la notizia di reato, la polizia giudiziaria, senza ritardo, riferisce al pubblico ministero". Se cade il corsivo ("Acquisita la notizia di reato, la polizia giudiziaria riferisce al pubblico ministero") l'intero gioco investigativo finisce nelle mani delle forze dell'ordine. Lo scenario diventa questo. Le polizie raccolgono la notizia di reato; fanno i primi accertamenti; ne possono valutare protagonisti, modalità e conseguenze. Informare la catena gerarchica e il governo. Decidere quando e come informare il pubblico ministero.
Non si può escludere che, nelle occasioni meno gradite o imbarazzanti per il potere politico o economico, la comunicazione possa avvenire fuori tempo massimo quando i buoi sono già scappati dalla stalla o quando diventa difficile raccogliere coerenti e tempestive fonti di prova per accertare reato e responsabilità. (Naturalmente sempre possono esserci pressioni sulla polizia giudiziaria per "aggiustare" le indagini, ma la dipendenza dal pubblico ministero protegge i funzionari dello Stato dalle gerarchie e dai governi).
Come si può comprendere, grazie a poche parole soppresse in un codice, giustizia e processo muterebbero. Sarebbe il governo a decidere, attraverso le polizie, quale fenomeno criminale aggredire e quali affari penali indagare. La separazione della polizia giudiziaria dal pubblico ministero risolve all'origine molte questioni cui la politica non ha trovato soluzione nel corso del tempo. L'obbligatorietà dell'azione penale sarebbe sterilizzata.
Oggi nella disponibilità delle procure, l'inizio dell'azione penale viene consegnata al governo che può selezionare quando, come e contro chi esercitare l'azione, attraverso la notizia di reato raccolta dalla polizia giudiziaria e i tempi di comunicazione alle procure. L'indipendenza del pubblico ministero sarebbe marginalizzata. Decretata la sua autonomia nelle indagini, sarà il poliziotto a decidere del lavoro soltanto formalmente indipendente del magistrato trasformando il pubblico ministero in "avvocato della polizia".
Un "avvocato" che mette le sue competenze tecniche al servizio di un'accusa preconfezionata in questure e caserme che lavorano alle dipendenze e con gli input del governo. La soluzione può essere gradita a larga parte del mondo politico (è un errore sottovalutare l'influenza e le connessioni di Violante nell'opposizione e nelle istituzioni) e peraltro Silvio Berlusconi non ha mai fatto mistero di volerla ad ogni costo. Forse, l'avrà. Senza tanti ghirighori costituzionali, la quadra - come l'uovo di Colombo - è lì a portata di mano. In poche parole da cancellare con un tratto di penna.
È L'UOVO di Colombo. Che cos'è un pubblico ministero senza polizia giudiziaria? Più o meno, niente. Un corpo senza braccia. Una toga nera che cammina. E allora se, nella scelta e nell'avvio dell'esercizio dell'azione penale, si toglie all'accusa la collaborazione della polizia; se si attribuiscono alla polizia i poteri che oggi sono del pubblico ministero (dalle notizie di reato alla direzione delle indagini), il gioco è fatto.
Quel che oggi appare una faticosa (e ardua) ascesa alle vette di una riforma costituzionale diventa, più o meno, una quieta passeggiata in riva al mare. Un percorso legislativo ordinario e svelto che, senza troppo clamore e piazze Navona, altera gli equilibri costituzionali più di quanto possa fare una risicatissima riscrittura della Costituzione.
La "riforma della giustizia" (o meglio lo scontro ideologico tra politica e magistratura) ha già un suo compromesso concreto, rapidamente realizzabile e già per buona parte condiviso. L'abolizione di qualche parola in due articoli del codice di procedura penale consente alla politica di ottenere, senza "guerre di religione", quel che dai tempi della Bicamerale è apparso alla politica una chimera: il controllo dell'azione penale e l'attenuazione dei poteri del pubblico ministero a vantaggio dell'esecutivo.
Come si sa, la riforma ha un'agenda autunnale già annunciata dal ministro della Giustizia Alfano: riforma del processo penale e civile e, poi, interventi costituzionali che muteranno il ruolo del Csm, l'obbligatorietà dell'azione penale, la separazione delle carriere. E' un'agenda, per la prima parte (riforma del processo), condivisa anche dall'opposizione che vuole rendere concreta la ragionevole durata del processo e più efficiente (finalmente efficiente) la macchina della giustizia. Ma, a saper ascoltare Luciano Violante e Niccolò Ghedini - le vere "teste d'uovo" protagoniste di questo minimalismo al tempo stesso riformista e rivoluzionario - è sufficiente già il riordino del processo penale per raccogliere qualche desideratissimo risultato. L'accordo non è segreto. Il compromesso è lì alla luce del sole e basta soltanto unire i punti per vederne il disegno.
Chiedono a Violante della separazione delle carriere (2 settembre, il Giornale). Curiosamente, prima di dirsi contrario alla separazione, Violante ragiona a lungo (in apparenza c'entra come il cavolo a merenda) sulla "confusione tra attività di polizia e attività del pm". Per concludere: "Il ruolo della polizia è stato schiacciato dal ruolo del pm. Bisogna tornare ai principi della Costituzione: la polizia da una parte e il pm dall'altra, ciascuno con proprie attribuzioni". E' una stravaganza il richiamo alla Carta. Come se le "attribuzioni" delle polizie fossero prescritte dalla Costituzione che, al contrario, all'articolo 109 recita: "L'autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria".
A stretto giro (3 settembre, il Giornale), risponde a Violante Niccolò Ghedini. Tecnico sapientissimo, di fatto il Guardasigilli, scorge il varco. Dice: "Sono d'accordo sulla necessità di valorizzare il lavoro della polizia giudiziaria rendendolo più autonomo da quello del pm. L'accordo si può trovare in tempi brevi". Si può immaginare che l'avvocato e consigliere di Berlusconi sfoggi uno dei suoi sorrisi, quando si lancia nella difesa dell'obbligarietà dell'azione penale ("La manterrei"). Ghedini sa che, liberata la polizia giudiziaria dalla dipendenza al pm, non vale più la pena occuparsi dell'obbligatorietà dell'azione penale che sarebbe già fritta. Vediamo perché.
Oggi (art. 327 del codice di procedura penale) "il pubblico ministero dirige le indagini e dispone direttamente della polizia giudiziaria che, anche dopo la comunicazione della notizia di reato, continua a svolgere attività di propria iniziativa". Se si cancellano le parole in corsivo la norma diventa: "La polizia giudiziaria, anche dopo la comunicazione della notizia di reato, svolge attività di propria iniziativa". Il pubblico ministero perde la direzione delle indagini mentre la polizia guadagna la sua libertà. Come chiunque comprende, la variazione non è neutra e senza conseguenze. Il pubblico ministero è indipendente dal potere politico e "soggetto soltanto alla legge", mentre il poliziotto è un funzionario dello Stato che risponde agli ordini di un ministro e alle scelte politiche del governo. Una seconda "correzione" accentua la discrezionalità della polizia e la distanza dal pm.
Articolo 347 del codice di procedura di penale: "Acquisita la notizia di reato, la polizia giudiziaria, senza ritardo, riferisce al pubblico ministero". Se cade il corsivo ("Acquisita la notizia di reato, la polizia giudiziaria riferisce al pubblico ministero") l'intero gioco investigativo finisce nelle mani delle forze dell'ordine. Lo scenario diventa questo. Le polizie raccolgono la notizia di reato; fanno i primi accertamenti; ne possono valutare protagonisti, modalità e conseguenze. Informare la catena gerarchica e il governo. Decidere quando e come informare il pubblico ministero.
Non si può escludere che, nelle occasioni meno gradite o imbarazzanti per il potere politico o economico, la comunicazione possa avvenire fuori tempo massimo quando i buoi sono già scappati dalla stalla o quando diventa difficile raccogliere coerenti e tempestive fonti di prova per accertare reato e responsabilità. (Naturalmente sempre possono esserci pressioni sulla polizia giudiziaria per "aggiustare" le indagini, ma la dipendenza dal pubblico ministero protegge i funzionari dello Stato dalle gerarchie e dai governi).
Come si può comprendere, grazie a poche parole soppresse in un codice, giustizia e processo muterebbero. Sarebbe il governo a decidere, attraverso le polizie, quale fenomeno criminale aggredire e quali affari penali indagare. La separazione della polizia giudiziaria dal pubblico ministero risolve all'origine molte questioni cui la politica non ha trovato soluzione nel corso del tempo. L'obbligatorietà dell'azione penale sarebbe sterilizzata.
Oggi nella disponibilità delle procure, l'inizio dell'azione penale viene consegnata al governo che può selezionare quando, come e contro chi esercitare l'azione, attraverso la notizia di reato raccolta dalla polizia giudiziaria e i tempi di comunicazione alle procure. L'indipendenza del pubblico ministero sarebbe marginalizzata. Decretata la sua autonomia nelle indagini, sarà il poliziotto a decidere del lavoro soltanto formalmente indipendente del magistrato trasformando il pubblico ministero in "avvocato della polizia".
Un "avvocato" che mette le sue competenze tecniche al servizio di un'accusa preconfezionata in questure e caserme che lavorano alle dipendenze e con gli input del governo. La soluzione può essere gradita a larga parte del mondo politico (è un errore sottovalutare l'influenza e le connessioni di Violante nell'opposizione e nelle istituzioni) e peraltro Silvio Berlusconi non ha mai fatto mistero di volerla ad ogni costo. Forse, l'avrà. Senza tanti ghirighori costituzionali, la quadra - come l'uovo di Colombo - è lì a portata di mano. In poche parole da cancellare con un tratto di penna.
(Tratto da un articolo di Giuseppe d' Avanzo)
martedì 9 settembre 2008
Accade venerdì
Venerdì 12 Settembre alle ore 18 a Livorno presso il Teatro dei Salesiani in via del Risorgimento, avrà luogo un incontro dibattito con Magdi Cristiano Allam vice direttore del Corriere della Sera, che, coglierà l'occasione per presentare il suo ultimo libro (anche se risale a qualche tempo fa) "Grazie Gesù", il libro che spiega i motivi della sua conversione al cristianesimo. Al dibattito saranno presenti Massimo Guantini (assessore del comune di Livrno), Guido Guastalla (rappresentante della comunità ebraica di Livorno) e Valfrido Zolesi (diacono della diocesi di Livorno).
Da sottolineare che questo incontro dibattito è uno degli eventi interni alla manifestazione Amichiamoci, organizzata dai giovani del III vicariato e di altre parrocchie della diocesi di Livorno.
Staremo a vedere.
Link utili:
http://www.salesianilivorno.it/
http://www.amichiamoci.it/index.htm
lunedì 8 settembre 2008
Clementina aveva (ovviamente) ragione
Di Marco Travaglio
La notizia che la Procura di Milano intende indagare Nicola Latorre, vicecapogruppo del Pd al Senato, per l’ipotesi di reato di concorso nell’aggiotaggio contestato a Ricucci e Consorte nelle scalate del 2005 non è nuova. Almeno per i pochi che si sono ostinati a tenersi informati.
Purtroppo, mai come nel caso di quest’indagine bipartisan, la politica s’è rivelata incompatibile con la verità delle carte.
Breve riepilogo. Il 20 luglio 2007 il gip Clementina Forleo chiede al Parlamento, su istanza della Procura di Milano, l’autorizzazione a usare 60 telefonate intercettate fra alcuni furbetti del quartierino e sei parlamentari, tre di Forza Italia (Cicu, Comincioli e Grillo) e tre Ds (D’Alema, Fassino e Latorre).
Di questi solo Grillo è già indagato, perché contro di lui pendono elementi diversi dalle telefonate.
Su Fassino, Cicu e Comincioli, nessun sospetto: le telefonate con le loro voci servono a corroborare le accuse a Consorte e a Ricucci, ma la presenza di quelle voci rende necessario - in base alla demenziale legge Boato - l’ok del Parlamento anche per usarle contro non parlamentari.
Restano D’Alema e Latorre, che per il gip Forleo potrebbero essere “consapevoli complici del disegno criminoso”: l’aggiotaggio contestato a Consorte per la scalata Bnl e a Ricucci per l’assalto al Corriere.
Dunque la gip chiede al Parlamento di autorizzarne l’uso a carico sia dei due furbetti, sia dei due politici.
La Casta insorge come un sol uomo, accusando la Forleo di aver abusato del suo potere, “scavalcando” la Procura nell’accusare due politici non ancora indagati.
Il pm Greco dichiara al Sole-24 ore che la Procura è sulla stessa linea del Gip: senza l’ok delle Camere, non si possono indagare due politici in base a telefonate non ancora autorizzate.
Ma contro la Forleo, abbandonata dall’Anm e costretta a difendersi da sola, continua l’iradiddio di attacchi culminati al Csm in un procedimento disciplinare e in una procedura per trasferirla.
Dal primo viene assolta, la seconda viene accolta a gentile richiesta della Casta, tant’è che oggi Clementina sta traslocando a Cremona.
Intanto le giunte di Camera e Senato autorizzano l’uso delle telefonate per Fassino e Cicu (che non rischiano di esser indagati) e salvano gli “indagabili” D’Alema e Latorre.
Per D’Alema si ricorre a un cavillo: siccome nel 2005 era europarlamentare, la richiesta va inoltrata a Bruxelles, dov’è ancora pendente in commissione.
Per Latorre il Senato, dopo dieci mesi di melina, decide di non decidere e rispedisce la richiesta al mittente. Cioè ai giudici di Milano.
Qui, a fine luglio, la Procura ha chiesto e ottenuto dal gip Gamacchio (Forleo assente per malattia) una nuova istanza al Senato per usare le telefonate di Latorre con Ricucci e Consorte “al fine di valutare la posizione del senatore Latorre”, visto che esse sono l’unica fonte per “l’innesco di una investigazione”.
Non si può indagare su Latorre finché il Senato non sbloccherà le intercettazioni.
Su Ricucci e Consorte, invece, l’ok del Parlamento non serve più in quanto nel frattempo la Consulta ha dichiarato incostituzionale la legge Boato là dove richiedeva il permesso delle Camere anche per le telefonate contro i privati cittadini a colloquio con parlamentari.
Il che dimostra che la Forleo era in perfetta linea con le richieste della Procura e non aveva scavalcato nessuno né commesso alcun abuso.
Sarebbe il caso che qualcuno le chiedesse scusa, a cominciare dal Pg della Cassazione e dal Csm che l’han cacciata in malomodo, trattandola come una mezza matta.
Ma soprattutto sarebbe il caso che il Senato accogliesse quanto prima la richiesta, consentendo alla Procura di fare le indagini necessarie a stabilire se Latorre abbia commesso reati o no.
L’interessato si rimette al voto del Senato, “qualunque cosa deciderà per me va bene”.
Eh no, troppo comodo.
La maggioranza l’ha il Pdl che, con la consueta e pelosa solidarietà di casta, tenterà di salvare Latorre perché una mano lava l’altra, cane non morde cane, oggi a te domani a noi.
Il Pd dovrebbe, per mostrarsi davvero alternativo, respingere il gentile omaggio sulla linea Prodi: “Nulla da nascondere, si indaghi pure”.
Un anno fa Veltroni dichiarò a MicroMega: “Fassino e D’Alema han chiesto alla Camera di autorizzare le intercettazioni che li riguardano. Dunque nessun limite verrà frapposto all’azione dei giudici”.
Dunque anche per Latorre il Pd chiederà il via libera del Senato, o è cambiato qualcosa?
La notizia che la Procura di Milano intende indagare Nicola Latorre, vicecapogruppo del Pd al Senato, per l’ipotesi di reato di concorso nell’aggiotaggio contestato a Ricucci e Consorte nelle scalate del 2005 non è nuova. Almeno per i pochi che si sono ostinati a tenersi informati.
Purtroppo, mai come nel caso di quest’indagine bipartisan, la politica s’è rivelata incompatibile con la verità delle carte.
Breve riepilogo. Il 20 luglio 2007 il gip Clementina Forleo chiede al Parlamento, su istanza della Procura di Milano, l’autorizzazione a usare 60 telefonate intercettate fra alcuni furbetti del quartierino e sei parlamentari, tre di Forza Italia (Cicu, Comincioli e Grillo) e tre Ds (D’Alema, Fassino e Latorre).
Di questi solo Grillo è già indagato, perché contro di lui pendono elementi diversi dalle telefonate.
Su Fassino, Cicu e Comincioli, nessun sospetto: le telefonate con le loro voci servono a corroborare le accuse a Consorte e a Ricucci, ma la presenza di quelle voci rende necessario - in base alla demenziale legge Boato - l’ok del Parlamento anche per usarle contro non parlamentari.
Restano D’Alema e Latorre, che per il gip Forleo potrebbero essere “consapevoli complici del disegno criminoso”: l’aggiotaggio contestato a Consorte per la scalata Bnl e a Ricucci per l’assalto al Corriere.
Dunque la gip chiede al Parlamento di autorizzarne l’uso a carico sia dei due furbetti, sia dei due politici.
La Casta insorge come un sol uomo, accusando la Forleo di aver abusato del suo potere, “scavalcando” la Procura nell’accusare due politici non ancora indagati.
Il pm Greco dichiara al Sole-24 ore che la Procura è sulla stessa linea del Gip: senza l’ok delle Camere, non si possono indagare due politici in base a telefonate non ancora autorizzate.
Ma contro la Forleo, abbandonata dall’Anm e costretta a difendersi da sola, continua l’iradiddio di attacchi culminati al Csm in un procedimento disciplinare e in una procedura per trasferirla.
Dal primo viene assolta, la seconda viene accolta a gentile richiesta della Casta, tant’è che oggi Clementina sta traslocando a Cremona.
Intanto le giunte di Camera e Senato autorizzano l’uso delle telefonate per Fassino e Cicu (che non rischiano di esser indagati) e salvano gli “indagabili” D’Alema e Latorre.
Per D’Alema si ricorre a un cavillo: siccome nel 2005 era europarlamentare, la richiesta va inoltrata a Bruxelles, dov’è ancora pendente in commissione.
Per Latorre il Senato, dopo dieci mesi di melina, decide di non decidere e rispedisce la richiesta al mittente. Cioè ai giudici di Milano.
Qui, a fine luglio, la Procura ha chiesto e ottenuto dal gip Gamacchio (Forleo assente per malattia) una nuova istanza al Senato per usare le telefonate di Latorre con Ricucci e Consorte “al fine di valutare la posizione del senatore Latorre”, visto che esse sono l’unica fonte per “l’innesco di una investigazione”.
Non si può indagare su Latorre finché il Senato non sbloccherà le intercettazioni.
Su Ricucci e Consorte, invece, l’ok del Parlamento non serve più in quanto nel frattempo la Consulta ha dichiarato incostituzionale la legge Boato là dove richiedeva il permesso delle Camere anche per le telefonate contro i privati cittadini a colloquio con parlamentari.
Il che dimostra che la Forleo era in perfetta linea con le richieste della Procura e non aveva scavalcato nessuno né commesso alcun abuso.
Sarebbe il caso che qualcuno le chiedesse scusa, a cominciare dal Pg della Cassazione e dal Csm che l’han cacciata in malomodo, trattandola come una mezza matta.
Ma soprattutto sarebbe il caso che il Senato accogliesse quanto prima la richiesta, consentendo alla Procura di fare le indagini necessarie a stabilire se Latorre abbia commesso reati o no.
L’interessato si rimette al voto del Senato, “qualunque cosa deciderà per me va bene”.
Eh no, troppo comodo.
La maggioranza l’ha il Pdl che, con la consueta e pelosa solidarietà di casta, tenterà di salvare Latorre perché una mano lava l’altra, cane non morde cane, oggi a te domani a noi.
Il Pd dovrebbe, per mostrarsi davvero alternativo, respingere il gentile omaggio sulla linea Prodi: “Nulla da nascondere, si indaghi pure”.
Un anno fa Veltroni dichiarò a MicroMega: “Fassino e D’Alema han chiesto alla Camera di autorizzare le intercettazioni che li riguardano. Dunque nessun limite verrà frapposto all’azione dei giudici”.
Dunque anche per Latorre il Pd chiederà il via libera del Senato, o è cambiato qualcosa?
giovedì 4 settembre 2008
Il libro della discordia
In questi giorni a Livorno ci sono polemiche riguardo alla presentazione di un libro: "Gli orfani di Salò" di Antonio Carioti.
Il libro, dal titolo esplicito, è di stampo revisionista e mira a mostrare una realtà diversa da quella esistita, ovvero mira a discolpare i partecipanti alla RSI, ma soprattutto quelli che, tra questi, sono sopravvissuti alla guerra e alla Resistenza.
Ora, da Guido Guastalla consigliere comunale del comune di Livorno è partita la richiesta, con l'appoggio di AN, al consiglio comunale di concedere una sala all'interno del comune stesso per permettere la presentazione di tale libro; il comune ovviamente ha rifiutato, ed è nata la polemica.
Per farla breve, questi consiglieri hanno chiesto alla provincia, se concedeva loro, per la presentazione del libro, la sala consiliare della provincia stessa, ma anche qui nulla di fatto.
Però... c'è sempre un però, per non aumentare oltremodo le polemiche, il consiglio provinciale ha deciso di concedere, per la presentazione di tale libro, la sala del chiostro francescano, nella quale già altri libri, non revisionisti però, furono presentati; la motivazione di tale decisione deriva da una falsa correttezza politica nell'accontentare tutti, ovvero, nei luoghi di rappresentanza dello Stato, antifascista per Costituzione, quali le sale di comune e provincia, NO, ma gli viene data questa sala per farli contenti, altrimenti la polemica rischia di ingigantirsi troppo.
Detto questo, bisogna precisare che: il signor Guastalla possiede una libreria, quindi se proprio ci tiene potrebbe farlo nella sua libreria, dove già in passato sono stati presentati dei libri, e ad una di queste presentazioni partecipò anche Gianfranco Fini; questo libro ha già un precedente di polemiche, tale precedente risale a qualche settimana fa ed è analogo a questo, solo che il comune di San Giuliano Terme (Pisa) non ha sentito storie e non ha concesso alcuno spazio pubblico per la presentazione di questo libro.
Considerazione personale: a parte il fatto che tali libri non dovrebbero essere nemmeno pubblicati in quanto minano le fondamenta della Repubblica, ma comunque nessuna autorità pubblica, sprattutto se appartenente a partiti di centro-sinistra, storicamente antifascisti, dovrebbe concedere un qualunque spazio pubblico, come giustamente hanno fatto a San Giuliano Terme, per eventi del genere, non solo, ma questa decisione è come una sorta di tacito consenso al revisionismo perpretato da tale libro, come anche da altri.
link di approfondimento: http://www.senzasoste.it/la-mia-citt-/gli-orfani-di-sal-larte-democristiana-del-non-prendere-posiz-2.html
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