[...]La questione italiana è unica e segnata da una profonda diversità rispetto al resto del mondo. Quella italiana non è una discussione tra esperti o un dibattito tra politici competenti su aspetti e modalità del rapporto fra i due poteri.
Vantare l’indipendenza del potere giudiziario di un Paese è privilegio delle democrazie. Dovunque, scorrendo i giornali del mondo, dalla Scandinavia all’India, trovate notizie del ministro sotto inchiesta (di solito dimissionario) del parlamentare indagato, di azioni probabilmente indebite compiute nell’ambito di uno degli altri due poteri, legislativo ed esecutivo, e perseguite dai procuratori e dai giudici del potere giudiziario. Poiché nel mondo del diritto la responsabilità penale è personale, ciascuno risponde in proprio, ci sono assolti e condannati (pochi, molto pochi restano o rientrano nella politica) e nessun Paese si spacca, nessun lavoro parlamentare si ferma, nessuno si esporrebbe al ridicolo di dichiararsi perseguitato, e anzi di esibire il numero delle inchieste e dei processi che lo riguardano come se fossero le decorazioni commemorative di valorose battaglie.
L’idea stessa che qualcuno manovri i giudici per i fini politici di un partito o di un gruppo, quando quell’idea torna ad essere dichiarata, come una denuncia rivelatrice, per decenni successivi, mentre intanto tutte le forze politiche (e il peso di quelle forze politiche) sono profondamente cambiate, è una denuncia malata. Oppure è la denuncia di un attentato, di un golpe. Va dimostrato con fatti, nomi, date, circostanze. Non è ammesso, non dal diritto e non dalla psichiatria, di dire: "Ce l’hanno con me".
Un momento di particolare, stridente contraddizione con la realtà, di nuovo in ambito dubbio sulla tenuta psichica o almeno la buona fede di chi fa la dichiarazione, viene raggiunto quando un inquisito assolto dichiara la sua assoluzione non la prova della giustizia che funziona, ma la prova del complotto. «Vedete? Mi perseguitano, tanto è vero che sono stato assolto».
Il lettore ha già capito che stiamo parlando sempre e solo di Berlusconi. Si può anche non nominarlo, ma la maledizione non se ne va. E’ lui che dichiara, in un mondo in cui si stanno incrinando le travi di sostegno di grandi Banche, in cui la paura è un ghibli che attraversa le Borse, in cui prezzi e inflazione salgono di giorno in giorno e anche di ora in ora, in cui il Governatore della Banca centrale americana non esita dichiararsi: «molto preoccupato», lui - Berlusconi - dichiara e ripete: «Nessuno mi fermerà; la priorità è la giustizia». Sentite i suoi rimedi alla crisi che scuote il mondo dalla City a Pechino:
«1. Ritorno all’immunità per i parlamentari (segue smentita, seguirà conferma).
2. Carriere separate per i giudici.
3. Frantumazione del Consiglio superiore della magistratura.
4. Misurare la produttività dei giudici (notare la parola da Confindustria applicata alla giustizia, ovvero la sovrapposizione di un potere sull’altro).
5. Vietare e punire tutte le intercettazioni eccetto per mafia e terrorismo» (con il problema di stabilire quando e dove una questione di mafia o terrorismo comincia o finisce).
* * *
Il problema si fa più grave quando illustri commentatori di grandi giornali seguono scrupolosamente il percorso indicato dal Capo che dice: se si verifica una interferenza, per qualsiasi ragione, fra giustizia e politica, il solo rimedio è “riequilibrare i poteri” ovvero tagliare le unghie alla giustizia.
Sentite l’opinione autorevole (e osservate lo snodo logico) espresso in un editoriale di Angelo Panebianco: «L’inchiesta su presunte tangenti nella sanità (dell’Abruzzo, ndr) ricorda a tutti che i problemi fra giustizia e politica non riguardano solo Berlusconi». E anche (sentite bene): «È lecito chiedere al Partito democratico: come pensate di essere di nuovo forza di governo se non avete una vostra posizione sulla giustizia che non si limiti a essere fotocopia di quella dell’Associazione magistrati?». (Corriere della Sera, 15 luglio).
Il senso di questo ammonimento è piuttosto offensivo per il nuovo Pd. L’editorialista sta dicendo: «Come pensate di governare se lasciate liberi i giudici di indagare?».
Credo di poter dire che, offensive o no, le frasi fin qui citate siano intraducibili per il New York Times. I due candidati dei due grandi partiti americani non hanno alcuna “posizione sulla giustizia” salvo le garanzie e i diritti umani e civili di tutti i cittadini. Non l’hanno e non devono averla perché tutto è già stato stabilito dalla Costituzione. E inoltre perché i candidati delle elezioni americane sono in corsa per ottenere il potere esecutivo, non quello giudiziario. Quando il Presidente e la signora Clinton sono finiti sotto inchiesta per bancarotta (una piccola proprietà dell’Arkansas gestita insieme con soci infidi), l’America non si è fermata un istante, non c’è stato alcun convegno e il Presidente ha fatto la spola fra la Casa Bianca e il Gran Jury (organo istruttorio) senza denunciare persecuzioni. Quando i Clinton sono stati assolti nessuno ha parlato di “teorema svuotato come una bolla di sapone” (sto citando l’estroso portavoce Bonaiuti). Si è limitato a dire: «È finita bene». I due Clinton, Presidente e First Lady, si sentivano protetti, come tutti i cittadini, dalla loro Costituzione.
Anche noi lo siamo dalla nostra. Ma c’è ansia e allarme quando un personaggio che ha peso, storia, rilievo politico come Massimo D’Alema dice al Corriere della Sera (15 luglio): «Sulle riforme serve un colpo di reni. Sì a ragionevoli convergenze». Convergenze con chi? Non sarebbe meglio tentare, tutti insieme, di salvare la vita a Tariq Aziz?
L’ex ministro degli Esteri sa che valore non solo simbolico avrebbe quel salvataggio.
Sentite l’opinione autorevole (e osservate lo snodo logico) espresso in un editoriale di Angelo Panebianco: «L’inchiesta su presunte tangenti nella sanità (dell’Abruzzo, ndr) ricorda a tutti che i problemi fra giustizia e politica non riguardano solo Berlusconi». E anche (sentite bene): «È lecito chiedere al Partito democratico: come pensate di essere di nuovo forza di governo se non avete una vostra posizione sulla giustizia che non si limiti a essere fotocopia di quella dell’Associazione magistrati?». (Corriere della Sera, 15 luglio).
Il senso di questo ammonimento è piuttosto offensivo per il nuovo Pd. L’editorialista sta dicendo: «Come pensate di governare se lasciate liberi i giudici di indagare?».
Credo di poter dire che, offensive o no, le frasi fin qui citate siano intraducibili per il New York Times. I due candidati dei due grandi partiti americani non hanno alcuna “posizione sulla giustizia” salvo le garanzie e i diritti umani e civili di tutti i cittadini. Non l’hanno e non devono averla perché tutto è già stato stabilito dalla Costituzione. E inoltre perché i candidati delle elezioni americane sono in corsa per ottenere il potere esecutivo, non quello giudiziario. Quando il Presidente e la signora Clinton sono finiti sotto inchiesta per bancarotta (una piccola proprietà dell’Arkansas gestita insieme con soci infidi), l’America non si è fermata un istante, non c’è stato alcun convegno e il Presidente ha fatto la spola fra la Casa Bianca e il Gran Jury (organo istruttorio) senza denunciare persecuzioni. Quando i Clinton sono stati assolti nessuno ha parlato di “teorema svuotato come una bolla di sapone” (sto citando l’estroso portavoce Bonaiuti). Si è limitato a dire: «È finita bene». I due Clinton, Presidente e First Lady, si sentivano protetti, come tutti i cittadini, dalla loro Costituzione.
Anche noi lo siamo dalla nostra. Ma c’è ansia e allarme quando un personaggio che ha peso, storia, rilievo politico come Massimo D’Alema dice al Corriere della Sera (15 luglio): «Sulle riforme serve un colpo di reni. Sì a ragionevoli convergenze». Convergenze con chi? Non sarebbe meglio tentare, tutti insieme, di salvare la vita a Tariq Aziz?
L’ex ministro degli Esteri sa che valore non solo simbolico avrebbe quel salvataggio.
Furio Colombo
1 commento:
Da adesso in poi la legge non è più uguale per tutti...
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